Ho appreso con commozione e gioia l’annuncio della beati cazione di Rosario Livatino e per me è un onore ricordarne la nobile figura quando sono trascorsi cinque mesi dal 30° anniversario del suo sacrificio in quella scarpata in cui aveva cercato un disperato tentativo di fuga. In quella scarpata, quel giorno, quale sostituto in servizio presso la procura della Repubblica di Caltanissetta, dovetti scendere e sollevare il lenzuolo che pietosamente copriva il volto di Rosario.
Etica del riconoscimento
Ho avuto il privilegio di conoscerlo e di essergli amico, essendo entrambi della stessa provincia, io di Agrigento lui di Canicattì, ma non ho mai avuto l’opportunità di lavorare con lui né di frequentarlo con una certa assiduità perché fino al 1985 ho prestato servizio a Trapani e poi a Caltanissetta. Quando mi giunse in ufficio la notizia del suo assassinio rimasi impietrito ed intervenni subito sul posto.
Ho diretto le indagini e sostenuto l’accusa nel giudizio di primo di grado; per questo voglio qui ricordare e ringraziare anche Pietro Nava, il testimone che, dimostrando altissimo senso civico e coraggio, si recò subito alla Questura di Agrigento a riferire ciò che aveva visto poco prima sulla SS 640 attraverso lo specchietto retrovisore, riconoscendo in un album fotografico il killer Pace Domenico mentre scavalcava il guard-rail con la pistola in pugno, inseguendo un uomo con la camicia bianca.
Pietro Nava, grazie alla sua testimonianza e al riconoscimento reiterato in sede di formale ricognizione di persona, ha consentito la condanna degli esecutori materiali, ed oggi è costretto a vivere con altre generalità all’estero con tutta la sua famiglia.
Di Rosario, magistrato integerrimo, raffinato giurista e uomo di profonda fede, voglio oggi ricordare una sua bellissima riflessione: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. La bellissima conferenza tenuta da Rosario il 7 aprile 1984 su invito del Rotary Club di Canicatti può essere considerata il suo testamento spirituale. La profondità delle sue riflessioni sulla indipendenza ed autonomia della magistratura, sulla esigenza non solo di essere ma anche di apparire indipendenti e credibili, sui rapporti tra magistratura e politica, sulla giurisdizione come servizio e non come potere, sull’esercizio della giurisdizione come atto di umiltà e di amore, ecco io credo che questa profondità e nobiltà di pensiero presentino oggi una straordinaria attualità e suonino come un monito alle giovani generazioni di magistrati.
La dimensione etica della legalità
In un momento storico in cui la magistratura ha toccato il punto più basso della propria credibilità e legittimazione morale di fronte alla collettività per il vulnus, forse irreparabile, provocato dalle indagini di Perugia su una certa gestione del potere consiliare e associativo, io credo che il pensiero di Rosario Livatino e le sue riflessioni sulla giurisdizione possano e debbano costituire il patrimonio comune per la rifondazione etica della magistratura associata, per ripartire sulla base di un ritrovato orgoglio di appartenere forse alla più importante istituzione di uno stato costituzionale di diritto e per onorare la memoria di quei tantissimi magistrati, e non solo, che hanno sacrificato la loro vita per difendere la nostra democrazia.
Nella copertina interna di uno dei libri che mi sono più cari e che custodisco nella mia libreria, Apologia di Socrate di Platone (a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano), è riportata una profonda riflessione del grande scrittore e filosofo Albert Camus: “Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio”.
Io penso che Rosario Livatino, per la coerenza che ne ha contraddistinto la vita professionale e privata, costituisca un esempio per le generazioni future e che le sue idee contribuiranno a cambiare questa nostra meravigliosa Sicilia e il nostro meraviglioso paese.
Al bellissimo libro della prof.ssa Ida Abate, dedicato alla nobile figura di Rosario Livatino, è stato dato il titolo Il piccolo giudice, mutuandolo dall’appellativo che Leonardo Sciascia aveva dato al protagonista di un suo romanzo, Porte Aperte, in cui narra la storia di un magistrato del periodo fascista che si rifiutò d infliggere la pena di morte, perché era contrario a tale sanzione a un imputato reo confesso, che aveva ucciso un gerarca fascista posto a capo dell’ufficio dal quale era stato licenziato per far posto ad un altro.
Sciascia spiegò:
Mi è venuto di chiamarlo il piccolo giudice non perché fosse notevolmente piccolo di statura ma per una impressione che di lui mi è rimasta da quando per la prima volta l’ho visto. Il dirlo piccolo mi è parso che ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato.
Il suo pensiero e la sua profonda umanità possono essere sintetizzati in queste sue bellissime parole che danno la misura della sua grandezza:
Il magistrato nel momento di decidere deve dismettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia.
Rosario Livatino, con il suo sacrificio ha rafforzato in ciascun magistrato la ferma determinazione di raccoglierne la testimonianza e onorarne ogni giorno la memoria sia nell’esercizio delle nostre funzioni che nella vita privata. Ho sempre considerato la presenza dei magistrati nelle scuole, per diffondere con la propria testimonianza la cultura della legalità, una vera e propria forma di “militanza politica” in difesa della dimensione etica della legalità.
La memoria costruisce libertà
Alla base di questo impegno morale e sociale v’è il profondo convincimento, sempre più maturato nel corso degli anni, che sia ormai acquisita alla coscienza collettiva la consapevolezza che la risposta giudiziaria non costituisce una soluzione taumaturgica del problema della criminalità organizzata, ma occorre altro e cioè una crescita culturale e politica complessiva della società civile e delle istituzioni che va perseguita e costruita quotidianamente anche attraverso le numerose iniziative che le scuole promuovono per sollecitare una riflessione collettiva con gli studenti che si affacciano alla maggiore età su temi di grande attualità, quali la legalità e la democrazia in una terra come la Sicilia che presenta, al pari della Calabria, dove ho lavorato per oltre dieci anni, il problema gravissimo di una forte presenza della criminalità organizzata e di una illegalità diffusa. In questa prospettiva di crescita della società civile desidero sottolineare l’importanza della “memoria” per dissentire dall’opinione di chi ritiene che le commemorazioni di stragi ed in genere di donne ed uomini delle istituzioni, e non solo (penso a sacerdoti come don Pino Puglisi, imprenditori come Libero Grassi, giornalisti come Giuseppe Fava), vittime di attentati mafiosi, si risolvono in una sterile forma di retorica senza alcuna utilità pratica se non quella di costituire una passerella per uomini politici o altri uomini delle istituzioni. Voglio qui ribadire che la “memoria” non deve essere solo un momento rievocativo o commemorativo ma un modo per riscattare storicamente e moralmente quel processo di rimozione collettiva del fenomeno mafioso, ma anche di altri fenomeni, come la shoah, che ci rende tutti colpevoli.
La memoria serve soprattutto a respingere tutti i tentativi di “negazionismo” e a favorire, per contro, un autentico processo di conoscenza di certi fenomeni che deve diventare a sua volta coscienza critica per contrastare quotidianamente, soprattutto culturalmente, il fenomeno mafioso. Sono profondamente convinto che la scuola sia l’unico laboratorio culturale che può concretamente promuovere la ricostruzione, la conservazione e la promozione di questa memoria collettiva; che possa favorire in ciascuno di noi la scelta irreversibile in favore di valori e principi in nome dei quali tanti servitori dello Stato e cittadini comuni hanno sacrificato la loro vita e, quindi, la consapevolezza di poter contribuire, ciascuno con il proprio quotidiano impegno in difesa della legalità, alla costruzione di una nuova etica collettiva e di una nuova etica pubblica.
Un uomo, beato
La scuola è l’unico laboratorio culturale che può spezzare la logica di quel circuito perverso fondato sull’etica dell’ordine e dell’obbedienza acritica, che impera all’interno della famiglia mafiosa e che perpetua il modello culturale della sottomissione delle mogli e dei figli al capo famiglia, segnandone ineluttabilmente le scelte di vita e quindi il futuro. All’etica dell’ordine e dell’obbedienza dobbiamo saper opporre l’etica del discorso e della responsabilità.
Ai giovani desidero rivolgere, ancora una volta, l’augurio e l’invito a vivere da uomini liberi, ma con la consapevolezza che solo la legalità assicura la libertà – come ammoniva Piero Calamandrei – e quindi la democrazia, la quale si conquista e si difende, giorno per giorno, anche attraverso una diffusa e costante intransigenza morale nei confronti del potere: solo la pratica di questa intransigenza potrà promuovere la consapevolezza in ciascun cittadino dei propri diritti e dei propri doveri, ma anche il ri uto dei privilegi. Quando sollevai quel lenzuolo, mentre mi tremava la mano, pensai: qui giace il corpo di un grande magistrato e di un grande uomo, un uomo giusto.
La sua beatificazione è il doveroso riconoscimento ad un uomo di profonda fede che ha onorato la toga con grande professionalità, indipendenza ed autonomia ma, soprattutto, con profonda umanità.
Ottavio Sferlazza
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