L’8 marzo è il giorno in cui si festeggia la festa della donna, ormai secondo una tradizione piuttosto antica nel tempo (infatti, è, ormai, circa un secolo che si usa celebrare questa giornata).
Questa ricorrenza ha un particolare significato quest’anno perché, a differenza degli ultimi anni, grava su tutti noi la terribile presenza della pandemia causata dal Covid 19 che ci turba molto e che piuttosto che solleticare il nostro desiderio di celebrazioni ci invita a riflettere sulla tragica scomparsa di centinaia di persone, soprattutto quelle della cosiddetta terza età, che, nonostante le cure, non ce l’hanno fatta in quasi tutti quei casi in cui oltre al Covid si accompagnavano altre patologie pregresse e debilitanti.
Ha un significato particolare perché, come spesso accade, alcune immagini simbolo della lotta contro il contagio sono legate alla figura di una donna.
Tutti infatti ricordano le foto pubblicate in tutti i giornali e mostrate anche in servizi televisivi, del volto di una giovane infermiera deturpato dal rossore di abrasioni causate dall’uso prolungato, per ore ed ore, nelle sale di degenza delle mascherine di protezione.
Quelle abrasioni non solo antiestetiche, ma pericolose anche per la possibilità di costituire, se non curate, fonte di infezioni anche gravi al volto hanno messo in evidenza che di fronte alla pandemia, non c’è passiva acquiescenza ma c’è lotta, sacrificio, anche a costo della propria incolumità personale.
E questa lotta, questo sacrificio assumono un carattere emblematico nella rappresentazione del tutto spontanea del viso di una giovane donna macchiato dai segni di un dispositivo medico usato per protezione negli ospedali.
Non a caso, anche questa volta, il desiderio di lotta, di rifiuto della malattia, di rinascita è affidato ad una donna.
Anche questa volta le donne (attraverso quelle immagini emblematiche legate ad una sola di esse) hanno dimostrato la funzione fondamentale che esse svolgono nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nel nostro tessuto sociale.
Eppure, nonostante questa ulteriore prova del ruolo essenziale ad esse attribuito, non cessano atti di meschina violenza, di brutale sopraffazione nei loro confronti da parte di persone che hanno perso il senso della loro umanità per calarsi nelle vesti della più orrida bestialità.
Uno sguardo ai dati è, a tale riguardo, illuminante.
Mi sono capitati sotto gli occhi alcuni dati relativi al 2017, veramente raccapriccianti, soprattutto se si pensa che da allora non sono affatto migliorati, anzi sono peggiorati.
Non oso indagare oltre e mi limito a fornirli perché veramente colpiscono per la loro gravità:
Nel settembre 2017, i dati erano di:
Nel primo semestre del 2018 il Telefono Rosa ha registrato 4 mila 664 telefonate, il 53 % in più dell’anno precedente.
La crudezza di queste cifre deve invitarci a riflettere e ad avviare in ciascuno di noi un momento di ponderazione per capire in che cosa la nostra società ha errato (o continua a sbagliare) se gli episodi di sopraffazione e di violenza continuano (anzi si accrescono di numero) nei confronti delle donne.
Ciò appare anche nelle attività svolte negli sportelli dei Centri specializzati ove emergono spaccati di vita in cui, talora, oltre ad episodi di indigenza appaiono anche episodi di miseria, miseria umana ove forme di sopraffazione e di violenza nei confronti delle donne, purtroppo, non sono rari.
In questi casi è importante erigere un baluardo a difesa della vittima, attraverso vari espedienti, umani, psicologici ed empatici ma anche attraverso la creazione di un coordinamento e di una rete di solidarietà che offra un ombrello di protezione nei casi più gravi.
Il mio auspicio è quello che l’8 marzo sia sempre presente nei nostri cuori anche in questi tempi di Covid e che lo spirito di amore e di pace possa mettere fine alle sopraffazioni e alle violenze nei confronti delle donne.
Caterina Viola
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